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...Ricordi del passato....
Postato il: 10-07-2012 @ 12:09 am -- letto 2309 volte


La macina era in un locale appositamente destinato “Sa dom’è sa mò” quella di mia nonna era pavimentata in mattoni, e c’era un ‘incisione circolare sul pavimento a testimoniare il continuo girare, da decenni di quell' animale, gli zoccoli avevano eroso i mattoni in corrispondenza del suo passaggio.
Come detto una volta attaccato l’asinello alla macina, e riempito la tramoggia di grano, si avviava la molitura, a quel punto se c’era un ragazzo nei paraggi, lo si incaricava di badare che l’asino non si fermasse, e “zerria candu scorìna’ sa mò” (chiama quando è finito il grano) sulla tramoggia: cosa che si capiva dal, diverso rumore che faceva la macina.
Ma il compito più gravoso e gratificante di questo incarico, era capire quando l’asinello doveva espletare i suoi bisogni fisiologici, e anticiparlo sul tempo mettendogli un barattolo a mò di pitale per raccoglierne i risultati.
Finita la molitura e raccolta la farina, essendo una farina integrale bisognava di ulteriori lavorazioni.
Era uno spettacolo vedere le donne intente a queste operazioni
Si cominciava con “sa parinedda po spoddinai” per separare la crusca, e poi con setacci di varie misure per la semola, e il fior di farina .
Si sentiva da lontano che le donne erano intente “a fai sa farra”, dal concerto degli arnesi che si usavano, specie del setaccio posato in “su scerezzadori” Due assi paralelle collegate tra loro,
posate sulla corbula, dove il setaccio usato da mani maestre emetteva una sinfonia di fruscìi, battiti e percussioni varie, da far impallidire il batterista di un’orchestra Jazz.
Come detto c’era una sorta di sacralità quando si facevano queste operazioni, che riguardavano il grano, la farina o il pane, certi riti scaramantici su come disporre anche gli arnesi,e quando magari volevi dare una mano ma non facevi le cose a regola d’arte, venivi redarguito con fermezza; “non si ingiuada” dicevano come fosse un tabù. 





La preparazione del pane era un operazione laboriosa, mai che si iniziase senza fare il segno della croce, si preparava la farina in una “crobi” (grosso canestro di paglia) per mettere “su framentu” (il lievito madre) si metteva il fermento in mezzo alla farina scavata a fontana al centro del canestro, poi veniva coperto con la stessa farina a forma di cupola, veniva segnata una croce sulla sommita del cumulo; coperto con una tovaglia
E con unu “Cilloni” una piccola coperta di orbace.
Si preparava la sera prima affinche iniziasse una prelievitazione, e fosse pronta per l’indomani all’alba.
Il giorno della panificazione iniziava ancor più presto del solito, si preparava l’impasto sciogliendo il fermento coperto dalla farina la sera prima, sulla “scivedda” “ (un grosso vaso di terracotta) si scioglieva con aqua tiepida leggermente salata, e si procedeva all’impasto vero e proprio, una volta raggiunta la giusta consistenza e dopo una breve pausa di riposo,iniziava la lavorazione vera e propria.
La lavorazione del pane era una cosa abbastanza faticosa, era un compito generalmente riservato alle donne, ma non era raro che prendessero parte anche i maschi, nella mia famiglia esclusi i più giovani, (beati loro) abbiamo imparato tutti a maneggiare un pezzo di pasta per il pane,.
Si cominciava con mettere un pezzo di pasta sul tavolo , e si cominciava a ”Ciuexi” a (gramolare) mano a mano che si gramolava si aggiungeva acqua e si aggiustava di sale , tale operazione poteva durare una mezzora, a seconda dei gusti della padrona di casa, quando diventava liscia e della giusta consistenza la si rimetteva nella “scivedda”a riposare.
Dopo una decina di minuti si riprendeva a “Spongiai”questa volta l’intero impasto dentro la scivedda , la lavorazione consisteva nel comprimerla e rigirarla con i pugni chiusi, come in un mortaio, l’esperienza bastava per capire quando l’ impasto era pronto per la lievitazione, lo si copriva con su “cilloni”e specie d’inverno, lo si metteva vicino al fuoco per facilitarne il processo. 





Si facevano due tipologie di pane; su “Civraxiu” e su” Coccoi”, c’erano alcune differenze sulla lavorazione; Per su “civraxiu” si formavano i pani al momento dell’infornata, per su “Coccoi” invece i pani si formavano alla fine della lavorazione; che veniva operata a parte.
Su coccoi è un pane a pasta dura; si formano i pani e si mettono a lievitare in su “Canisteddu” Ben coperti con tovaglie e coperte, al momento di infornarlo su coccoi viene “pintau”; con delle forbici o con un coltellino apposito, e con sa “sarretta” (la rotellina dentata) vengono operati dei tagli e decorazioni che durante la cottura si aprono e creano autentici ricami sulla pasta.
Alcune sono talmente brave in queste decorazioni ,da creare vere e proprie opere d’arte.
Il pane Coccoi veniva fatto in varie forme, dai nomi curiosi, “S’arenara” il ( melograno ) Su “Piseddu” (la Cicerchia) su “pei de cascia” il (Piede di cassapanca) e altri, nel periodo pasquale per noi bambini facevano su “coccoi cun s’ou” un piccolo coccoi con delle forme di animali o altre, con un uovo al centro, era una festa quando ce lo davano, il giorno di Pasqua.
In comune avevano la bontà, e is “pizzicorredus” ( le punte croccanti) delle decorazioni, e noi bambini (ma non solo) sfidavamo il rischio di un pestone sulle mani facendo a gara a chi arrivava prima a spuntarli.
Particolare cura si metteva nella preparazione del forno, pena la cattiva riuscita dell’infornata, si cominciava con “sa prima forrada “ si immettevano nel forno alcune fascine di legna preparate a fine estate, la legna era di varie essenze, (Cisto, Lentisco, olivastro, ) e per chi aveva il vigneto; anche i sarmenti di potatura erano indicati per preparare il forno.
A seconda delle essenze presenti in queste fascine, avevano un potere calorico diverso tra loro, e l’esperienza delle massaie suggeriva il giusto dosaggio affinchè il pane non venisse bruciato o lasciato mezzo crudo.
Dopo “sa prima forrada “ e finita la bruciatura della legna, al centro del forno rimaneva un cumulo di braci, che venivano accuratamente sparse per tutto il diametro del forno con l’ausilio de su “fruconi” una lunga pertica di legno.





A questo punto il forno veniva lasciato a “Smartì” vale a dire lasciato a smaltire, affinchè il calore si diffondesse in modo uniforme su fondo e pareti, avendo cura di rimestare le braci di tanto in tanto, durante questa pausa si preparanta is “scovas” le scope per la cenere e le braci, venivano fatte con mazzi di frasche fresche generalmente di lentisco o di cisto e legate ad un “fruconi” con del giunco messo a bagno nell’acqua affinchè non bruciasse al momento del suo utilizzo; era il momento di fare sa “segunda forrada” si reimettevano alcune fascine nel forno che incendiavano immediatamente visto che il forno era già preriscaldato, finita la combustione , solito spandimento delle braci e ispezione visiva continua, quando il forno “sbiancada a facci” (raggiungeva il calor bianco) era ora di scopare la cenere e le rimanenti braci, che si mettevano ad argine davanti alla bocca del forno.
A seconda da come “friggevano” al calore le foglie fresche delle scope, la massaia decideva se il forno aveva “fundu mannu” cioè fosse troppo caldo, in questo caso provvedeva a stemperarlo, con le scope bagnate, si operavano alcuni passaggi sul fondo, oppure fosse a “fundu moddi” necessitava aggiunta di legna perche non caldo a sufficienza. Finalmente dopo queste laboriose operazioni, il pane veniva finalmente infornato, e il profumo che si spandeva intorno era la giusta ricompensa a questa lunga giornata di fatiche.
Fatta la cottura del pane, a forno ancora caldo, si infornava su “Niededdu” il pane integrale; più che integrale, erano pani di sola crusca, destinati ai cani da pastore e da caccia, che poi erano gli stessi, che facevano il doppio “servizio”, ma capitava spesso che il pastorello lo mangiasse lui “su niededdu”o comunque ai cani arrivassero solo le briciole, pertanto dovevano arrangiarsi con i frutti del perastro selvatico o altri frutti spontanei che la natura offriva a seconda delle stagioni.
Capitava quando si accendeva il forno, se erano presenti ragazze in età da marito; un po’ sul serio e un po’ per giocare si faceva una prova di compatibilità con dei possibili pretendenti alla mano della donzella; si prendevano due foglie verdi di ulivo e si buttavano nel forno caldissimo, si dava il nome alle foglie “Tizio con Caia” se le foglie bruciavano vicine; si poteva fare,e se invece si allontanavano sfrigolando e scoppiettando: “Non cuncordanta” l’unione non era da fare.

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Ultimo aggiornamento il 10-07-2012 @ 12:09 am



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Commento di: terrypux
(Postato il 18-07-2012 @ 02:45 pm)

Commento: Allora si dava il giusto valore alle cose ,sacro era il grano ,sacra la farina e sacro era il pane che ti nutriva ,cose che oggi fanno ridere perchè si è perso il vero valore delle cose .

Commento di: canifuendi
(Postato il 20-07-2012 @ 12:48 am)

Commento: Si Terry oggi sono cose che "Apparentemente" fanno ridere, ma a sentire le notizie che ci giungono da tutto il mondo..(e anche da casa nostra)...mi sembra che le risate finiranno, e sai che ti dico; che le nostre tristi esperienze ci serviranno, in un futuro molto prossimo ...la vedo grigia...

Commento di: Aspirina
(Postato il 24-08-2012 @ 01:32 am)

Commento: E' un vero piacere leggerti!

Commento di: canifuendi
(Postato il 27-08-2012 @ 01:03 am)

Commento: Grazie Aspi....il complimento di un'artista a tutto tondo come te...è una frustata di andrenalina!!!!!!!!

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