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LA FESTA DELLA FAMIGLIA
Postato il: 11-03-2009 @ 04:58 am -- letto 2623 volte

Tante tradizioni piene di significato e dense d'insegnamenti non si ricordano e non si praticano più. A volte un bimbo domanda al nonno e il vecchio, intriso di ricordi, risponde. Ecco la conoscenza delle tradizioni popolari oggi: oramai solo gli anziani sono testimoni e depositari dei segni del passato. La società consumistica va spazzando via, inesorabilmente, la storia e le tradizioni dei popoli.
San Giuseppe "lu patruzzu di la pruvidenzia" ha un culto particolare in molti paesi della Sicilia, dei quali il santo è patrono, che si manifesta attraverso un complesso di elementi rituali, pubblici e privati, quali il banchetto sacro, la preparazione dell'altare, la raccolta delle offerte, la sacra rappresentazione, l'accensione dei fuochi e la processione. Anticamente, il santo veniva celebrato con messe e novene ogni mercoledì sin dal mese di gennaio, oggi, invece, ci si limita al solo mese di marzo e la data della sua festa coincide con l'equinozio di primavera. Nella tradizione popolare, oltre ad essere il protettore degli orfani e delle ragazze nubili, san Giuseppe protegge soprattutto i poveri, ed è per questo motivo che esiste l'usanza di preparare il pranzo sacro offerto ai bisognosi e agli orfani. Il banchetto per la festa di san Giuseppe viene denominato in vari modi, a seconda del paese: cena, ammitu, artaru, tavulata. Nel mese di marzo è tradizione locale fare una promessa di voto al santo o ringraziarlo per la grazia ricevuta. I preparativi durano otto giorni e durante questo periodo viene allestito l'altare in casa e si provvede ad invitare un certo numero di bambini, in base al voto fatto, di solito in numero di tre in quanto devono rappresentare la Sacra Famiglia: Maria, Giuseppe e il Bambin Gesù. Moltissime famiglie fanno "li prummisioni" per una grazia ricevuta o per una particolare fede verso il Santo. Le promesse più rilevanti sono gli Altari, ma vi sono ogni anno anche numerose persone che, andando in giro per le strade, distribuiscono a pezzetti, le caratteristiche forme di pane benedetto, chiamate "purciddata" o "parmuzzi" o "li varbuzzi di San Giuseppi", riccamente decorati di sesamo e rametti di rosmarino. L' importanza di questa popolare festività proviene dagli Altari, che consistono nell'addobbo di una stanza a piano terra, con veli, lenzuoli e tovaglie ricamate a mano, nonché nella preparazione di numerose pietanze, con la sola esclusione della carne, che verranno offerte alla Sacra Famiglia, agli Apostoli ed ai visitatori. Alcune delle pietanze più tipiche che vengono disposte in bella evidenza su un lungo tavolo, sono: "la pasta cu la muddica", "la 'mpignulata cu lu meli", "li sfingi", "li carduna fritti" e poi finocchietti selvatici, fave, piselli, uova, verdure, frutta secca, frutta fresca e dolci preparati in tanti modi diversi. L'uso di imbandire mense su altari allestiti per l'occasione, diffuso in tutta l'area del Mediterraneo, risale fino alle epoche più antiche ed il cibo, nella sua valenza simbolica e rituale, diventa l'elemento principale nei festeggiamenti dedicati al santo. La preparazione dell'altare consiste nell'edificazione di una cappelletta utilizzando come materiali il legno o il ferro. La struttura viene ricoperta da rami di mirto e di alloro, simboli agresti con chiaro significato propiziatorio, e, in ultimo, essa viene decorata con arance, limoni e piccole forme di pani, legati tra di loro con delle cordicelle. All'interno della cappelletta viene preparato un altarino disposto su un ripiano e sotto di esso vi sono altri tre ripiani dove vengono collocati i pani votivi e i simboli religiosi tradizionali. L'altare ha la decorazione dei rami di mirto e di alloro, mentre la preparazione del pane impegna per diversi giorni non solo le donne di casa, ma anche quelle del vicinato. L'impasto della farina segue un rituale ben preciso: i pani devono essere di peso e dimensione diversi e le forme rappresentano fiori, frutta e animali, mentre la loro collocazione sull'altare spetta, per tradizione, al capofamiglia. Il segno dell'abbondanza nell'altare è rappresentato dagli ortaggi, soprattutto dal finocchio, e dalla frutta collocata in grandi cesti. Al centro vengono, invece, disposti i "cucciddati", grandi forme di pani votivi. La forma di pane dedicata al santo ne riproduce il bastone, u vastuni, decorato con un giglio simbolo di purezza; il pane dedicato a Maria è decorato con una rosa che rappresenta la verginità e guarnito da datteri che, secondo la tradizione, la Vergine mangiò durante la fuga in Egitto e da un ramo di palma simbolo di pace, mentre il pane dedicato a Gesù viene decorato con gelsomini, uccelli e con i simboli della passione. Questi pani votivi assumono nella maggior parte delle feste religiose un profondo significato sacrale, a cui la festa di san Giuseppe allude esplicitamente poiché è legata all'arcaico simbolismo agrario del rinnovamento della natura, che avviene proprio nel mese di marzo. La preparazione del pranzo offerto ai poveri e agli orfani comprende un certo numero di portate, da un minimo di diciannove a un massimo di centouno. Le pietanze vengono preparate e poste sulla tavola in una stanza adiacente a quella in cui è stato allestito l'altare. L'abbondanza del cibo rappresenta anche il trionfo della carità e della solidarietà cristiana e, quando più tardi giungeranno i bambini invitati, sarà il capofamiglia, dopo aver loro ritualmente lavato le mani, a condurli a prendere posto attorno alla tavola. Insomma, la visita ad uno di questi singolari Altari è uno spettacolo di colori, di profumi, di pietanze e di religiosità, che ha un suo fascino tutto particolare. Nel giorno della Festa, le famiglie facevano a gara per aiutare i poveri, ognuno secondo le proprie possibilità. A volte andavano in giro ad elemosinare la farina, l'olio e gli altri ingredienti pur di offrire un pranzo ai più poveri di loro, un pranzo, forse non tanto assortito, ma, sempre, abbondante e ricchissimo di amore. Si preparavano "i purciddata tumminara o cudduri" pani rotondi per la cui confezione s'impiegava la farina di un tomolo di grano (15-16 Kg.) ben arabescati e resi lucidi con uovo e semi di papavero. Si facevano pure "li varbi", pani a doppio cono rovesciato che, grosso modo, somigliavano alla barba di S. Giuseppe. I buccellati venivano cotti in un forno"camiatu cu li strippuna", riscaldato con i sarmenti di vite, e, appena sfornati, portati in giro dalla fornaia ancora sporca di fuliggine: Tajà ch'è beddu 'u purciddatu!! Guardate quant'è bello il pane di S. Giuseppe, ripeteva con orgoglio. Le donne si facevano il segno di croce e baciavano il pane croccante e ben cotto. Per la propria famiglia, si preparavano la "pasta cu 'a muddica "spaghetti conditi con mollica di pane fritto e zucchero, e la "minestra di tutt'ammischi" minestrone di cavolfiori, piselli, finocchielli di montagna, altre verdure e pasta di diversa qualità che veniva "addimannata", chiesta in elemosina: ogni massaia, per penitenza, si umiliava e chiedeva alle vicine un pugnetto di pasta. Quelle le davan la pasta che avevano e così, pur se di formato diverso, si buttava nella pentola e, poi, si mangiava per devozione. Inoltre si preparavano i ravioli (frittelle di ricotta), fritto di asparagi ed altre leccorníe che variavano di paese in paese.
Come si può vedere, tutte le feste che si celebrano in onore di san Giuseppe condividono una caratteristica fondamentale, cioè la preparazione del banchetto collettivo che, come nelle feste di origine agricola, assume un valore propiziatorio teso ad assicurare dei buoni raccolti ricorrendo ai segni dell'abbondanza. Ma questa festa non è soltanto la festa del pane, del raccolto e del risveglio della natura: è soprattutto la festa della famiglia, in cui, attraverso la preparazione del pranzo votivo, si ritualizza un momento quotidiano fondamentale nella tradizione e nella cultura contadina.
Parecchi anni fa, alcuni giorni prima della festività vera e propria, si organizzava con grande sfarzo, una manifestazione dedicata alla giornata "di l'addauru", cioè dell'alloro, che ancora oggi, in tono un po' minore resta in uso. Una imponente sfilata di uomini a cavallo con in mano rami di alloro riccamente adornati di nastri multicolori, che veniva chiamata "la cravacata di l'addauru", sfilava lungo le vie principali del paese. Solitamente, erano gli stessi membri del Comitato della Festa, che facevano l'andatura e precedevano tutti i partecipanti, distinguendosi dagli altri per il collare con l'immagine di San Giuseppe, che portavano addosso. Tutti gli altri cavalieri erano, solitamente, i cosiddetti "burgisi", cioè agricoltori facoltosi che gareggiavano per sfoggiare il più elegante abbigliamento, i migliori stivali o l'addobbo più sfarzoso per il proprio animale, per poter vincere l'ambito trofeo assegnato ogni anno da un'apposita Commissione.
Una cinquantina di anni fa questi particolari addobbi venivano realizzati in magazzini chiamati "funnaci" che durante la mattinata, prima dell'arrivo di San Giuseppe, seguito dalla Madonna, seduta su un asinello,con il Bambino in braccio e i 12 Apostoli impersonati da ragazzi, scelti tra i più bisognosi e comunemente chiamati "li virgineddi", venivano chiusi dal di dentro dai rispettivi proprietari. A questo punto, dietro alla porta trovata chiusa, San Giuseppe bussava con il suo lungo bastone adornato di fiori. Il padrone o la padrona, dapprima fingeva di non sentire, ma dopo un po' la porta veniva aperta e si negava la richiesta di ospitalità. San Giuseppe, offeso, si rivolgeva, con grande delusione e tristezza, a Maria, al Figlio e agli Apostoli, ma, prima che la Sacra Famiglia con "li dudici virgineddi" andassero via amareggiati, i proprietari di "lu funnacu", mossi a pietà, spalancavano la porta, mettendo a disposizione tutto quanto era stato preparato per l'occasione. Anche i numerosi vicini di casa e i visitatori, alla fine, potevano ottenere qualche pietanza della ricca mensa. Inoltre, poteva essere gustato un bel piatto caldo della tradizionale "minestra di San Giuseppi", a base di spaghetti sminuzzati e verdure varie, che veniva preparato fin dalle prime ore del mattino in mezzo alla strada, in un grande "casdaruni" di alluminio. Ancora oggi, qualche famiglia usa cucinare e distribuire questo semplice ma saporito minestrone, il cui assaggio viene considerato di buon auspicio. Al posto del pranzo si può contribuire con forme di pane, preparate in modi diversi, che imitano la barba del Santo «A varvuzza», la mano «A manuzza», il bastone «u vastuni», il giglio «u gigliu», ed alcuni arnesi da lavoro come il martello e le tenaglie «Martiddu e tinaglia», che vengono disposte sopra l'altare.
Vi è, poi, l'usanza di raccogliere dei rami di mirto e di alloro per rivestire la stràula, una torre di legno alta circa una decina di metri, collocata sopra un grande carro e decorata da forme di grandi pani chiamati "cudduri" o "purciddata", legati tra loro per mezzo di cordicelle. Pani, che, a festa ultimata, diventati ormai duri, venivano inzuppati in grandi calderoni di "ricotta cu lu seru" e venivano destinati ai poveri e alle "prummisioni".
Oggi queste abitudini si sono molto ridimensionate. Quel carro trionfale chiamato Stràula è poco più di un misero carretto e al posto dei maestosi buoi che lo trainavano, sta un lento e stanco asinello che sembra guardarci dritto negli occhi, incredulo, forse per ammonirci di guardare il passato con amore e mantenere fedelmente i segni della memoria nel presente.©Bettyboop


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Ultimo aggiornamento il 12-10-2009 @ 07:57 pm



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Commento di: silvana
(Postato il 12-03-2009 @ 07:52 am)

Commento: e son veramente belle le tradizioni ! Benvenuti tutti coloro ke le conservano tramandandole cosi' .Il passato nn sia mai da cancellare , se ha valori grandi come quelli della Famiglia , una festa ke tu ,cara Betty, ci fai notare con questa piacevole lettura . grazie :)

Commento di: raggiodisole
(Postato il 13-03-2009 @ 12:08 pm)

Commento: Un'altra bella, minuziosa e precisa pagina tutta da assaporare col cuore e col palato.....
Un particolare grazie per ravvivare tradizioni che non devono andare in disuso.
Giu

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